ESC 2024 – When the music dies

L’edizione più polemica e controversa dell’Eurovision Song Contest si è conclusa ormai da oltre due settimane, lasciandosi degli strascichi che immancabilmente – ci piaccia o meno – ci accompagneranno per tutta l’estate e oltre. Personalmente non ho mai sofferto particolarmente la P.E.D. (Post-Eurovision Depression), perché penso che tutte le belle avventure vivano un inizio e una fine, e proprio come una vera e propria “avventura” che ricarichi le mie batterie per tornare nel migliore dei modi alla vita reale è il modo in cui ho cercato di affrontare ognuno dei miei 6 (SEI!) ESC vissuti on location.

Va da sè, però, che quello di quest’anno non è stato un Eurovision come tutti gli altri. Che pure ho provato io in primis a farlo sembrare tale, “sbattendomi” come da tradizione per tutta la settimana fra la sala stampa e Twitter assieme agli amici vecchi e nuovi. Che però, specialmente negli ultimi due giorni di passione, le dinamiche del mondo reale hanno riportato (quasi) tutti con i piedi per terra e hanno fatto temere (almeno a me) delle cose che all’Eurovision non si vorrebbero e dovrebbero mai neanche pensare.

E d’altra parte è finita ragionevolmente bene e siamo sopravvissuti per raccontarlo e ragionarci un po’ sopra prima di archiviarlo definitivamente. Indi per cui: quello che segue è il mio post-mortem dell’Eurovision Song Contest 2024.

L’ESPERIENZA EUROVISIVA

Arrivato alla Malmö Arena per la prima volta nel primo pomeriggio di sabato 4, mi sono diretto subito al Press Centre per sbrigare la procedura di accredito (necessario per il Turquoise Carpet che si sarebbe svolto il giorno seguente). La sala stampa era già aperta, malgrado le prime prove aperte ai giornalisti sarebbero state quelle di lunedì 6. Il set-up mi è parso da subito molto simile a quello di Stoccolma, con un’area singola di circa 1500 posti ufficialmente divisa tra fan media e “stampa vera” ma senza cerberi d’ordinanza a presidiare la confluenza dei giornalisti da una zona all’altra (come a Liverpool). Altro upgrade sul 2023 è stato la presenza di un bar e di un ristorante che servivano entrambi *cibo vero*, anche se limitato a quattro opzioni rimaste tali per tutta la settimana (köttbullar, fish and chips, lasagna con cavolfiori, hamburger).

(N.B.: La divisione tra fan media (accredito FM) e “stampa vera” (accredito M1, M2 o M3) rimane a mio avviso una barzelletta che non fa ridere, tanto più dato che 1) dentro la “stampa vera” si trovano anche tanti fan, e mi ci metto io per primo, perché non tutti i fan riescono ad accreditarsi o vogliono accreditarsi tramite i rispettivi fan media; 2) per come viene trattato l’ESC da tanti giornalisti professionisti, in Italia e altrove, non vedo perché questi debbano essere messi su un piedistallo rispetto ai tanti non professionisti che coprono l’evento per 365 giorni l’anno. É lo stesso modello della sala stampa sanremese divisa tra Lucio Dalla e Ariston Roof, con più o meno le stesse dinamiche (perlomeno stando a chi c’è stato e me le ha raccontate) che hanno già rovinato ampiamente il racconto del Festival e sono a buon punto nel farlo pure con l’ESC).

Domenica 5 è stata la giornata dedicata al Turquoise Carpet, che era stato organizzato nella cornice “alternativa” del centro eventi Malmö Live e del prospiciente Clarion Hotel (dove soggiornava la maggior parte delle delegazioni). A differenza degli anni scorsi, l’evento si è tenuto a capienza ridotta e quasi interamente al coperto – con una breve passerella all’esterno, introdotta dalle drag queen Elecktra e Tia Kofi, a cui hanno fatto seguito il tradizionale set fotografico e il giro di interviste con la stampa internazionale. Personalmente, da non fan del Carpet (perché non mi trovo a mio agio in contesti dove lavora meglio e fa le migliori interviste chi è più bravo a “sgomitare”) ho apprezzato la soluzione di porre la stampa in un locale separato all’interno, evitando situazioni come quelle sperimentate in passato dove i giornalisti erano costretti a disputarsi l’attenzione degli artisti con i fan piazzati sul lato opposto. É innegabile però che l’evento non abbia avuto la stessa allure delle scorse edizioni, e che l’assenza quasi totale di spettatori e l’impiego massivo delle forze dell’ordine (con tanto di gommoni e moto d’acqua che pattugliavano il canale lungo la Fiskehamnsgatan) abbiano restituito a chi l’ha seguito da casa l’idea di un Carpet per nulla celebrativo, “in tono minore” e fatto giusto per fare. Ad ogni modo, non avevamo ancora lasciato il Malmö Live che già venivano rilasciate le prime dichiarazioni da parte di Ebba Adielsson (SVT) che definiva l’evento “un successo considerate le circostanze”, vista la paura di incidenti e/o contestazioni non necessariamente rivolte alla delegazione israeliana (che ad ogni modo non aveva presenziato, data la “scusa ufficiale” della concomitanza con la festa nazionale dello Yom HaShoah).

Con lunedì sono finalmente cominciate le prove generali e la possibilità di mettere i primi puntini sulle “i” ha prevedibilmente riscaldato gli animi: a un minimo di scetticismo iniziale sulla favorita Croazia – che aveva superato la Svizzera nella classifica degli scommettitori durante la prima settimana di prove – si è sovrapposto un genuino entusiasmo generale per la proposta dell’Irlanda, che nel giro di un paio di giorni ha finito per contrapporre chi la vedeva come potenziale NQ e chi come potenziale vincitrice di tutto il cucuzzaro. La narrativa della vittoria di Bambie Thug era molto, molto appetibile (Irlanda che vince l’ottava in casa della Svezia, solo un anno dopo essere stata raggiunta dalla Svezia stessa a quota sette, dopo una decade e più di batoste; Bambie Thug prim* vincitore non-binary della storia dell’ESC, argomentazione ricicciata fuori dopo essere stata portata avanti durante la stagione dai fautori della Svizzera; Bambie Thug artista più schierat* a favore della causa palestinese, e dunque potenzialmente capace di convogliare una fetta notevole di supporto alla causa – anche di giurati – a suo favore) e per quanto gonfiata, è stata sicuramente la “storia” che ha maggiormente tenuto banco ad inizio settimana.

Il mood collettivo è però cambiato da mercoledì 8, quando l’entrata in scena delle nazioni in gara nella semi 2 ha puntato nuovamente i riflettori sulla presenza in gara di Israele. La prova del pomeriggio si era risolta senza grandi sorprese o rallentamenti, e così sembrava (dal feed della sala stampa) anche il jury show del mercoledì sera – fino a quando non hanno cominciato a girare su Twitter, e in breve a diffondersi anche fuori dalla “bolla”, i video dei fischi e della fortissima contestazione del pubblico in arena alla performance di Eden Golan.

É stato più o meno in quel momento che Israele ha prevedibilmente cominciato ad essere al centro di ogni discorso fatto in sala stampa, anche più della corsa al titolo fra Croazia e Svizzera (e Irlanda) che ha visto un ulteriore scossone quando il sondaggio del family show di mercoledì – influenzato, si scoprirà poi, dalla chiusura del ponte di Öresund per motivi mai del tutto chiariti e dal conseguente arrivo tardivo in arena di tanti fan che soggiornavano a Copenaghen – ha decretato a sorpresa un sostanziale pareggio statistico fra Nemo e il favorito del pubblico in arena, l’olandese Joost Klein. Già in quelle ore giravano le prime voci sull’harassment di artisti e giornalisti da parte di *determinati membri* della delegazione israeliana, con la stampa mainstream internazionale che volgeva l’attenzione verso Malmö in anticipazione della manifestazione prevista per il pomeriggio di giovedì.

Al termine della seconda semifinale è accaduto l’evento che ha rappresentato un po’ la chiave di volta di questo Eurovision 2024 e fatto precipitare gli eventi verso il delirio degli ultimi due giorni. Non avevamo ancora terminato di commentare le 10 qualificate che il mio Twitter ha cominciato ad accendersi con decine di messaggi che riportavano il leak dei risultati del televoto italiano, mandato in onda da RAI in coda alla trasmissione. Sono seguiti cinque minuti di panico vero, prima alla ricerca di una conferma della veridicità degli screen (ottenuta praticamente subito, in quanto il video integrale era stato ricondiviso – e subito cancellato – dall’account @EurovisionRai) e poi a fare i conti con la realizzazione dell’assurdo 39% di preferenze ottenuto da Israele, che non appena la notizia ha cominciato a diffondersi fuori dal contesto italico ha fatto calare un vero e proprio gelo su tutta la sala stampa.

Solo in questo momento, o almeno così mi è sembrato, è arrivata una sorta di presa di coscienza collettiva che Hurricane avrebbe inevitabilmente raggiunto una delle prime posizioni (se non proprio la prima) della classifica del televoto di sabato sera – realizzazione a cui ha fatto seguito la subitanea scalata di Israele nella classifica delle scommesse, fino a un secondo posto che la metteva within striking distance rispetto alla favorita Croazia. Questo mutamento nelle dinamiche ha inevitabilmente cambiato il corso degli eventi, spento la narrativa dell’Irlanda (della quale non si è quasi più parlato fino a sabato) e concentrato gli sforzi del fronte anti-Israele nel promuovere la candidatura croata, vista come ultimo argine a un evento che a questo punto ha iniziato ad essere considerato seriamente: la potenziale vittoria di Eden Golan e il conseguente disastro mediatico che ne sarebbe conseguito, tale da porre verosimilmente fine alla storia lunga e luminosa di Eurovision.

La prima prova generale della finale ha portato un ulteriore twist: la mancata esibizione di Joost Klein, apparso regolarmente alla flag parade e già chiacchierato nel corso della mattinata per l’alterco avuto con la delegazione israeliana durante la conferenza stampa dei qualificati della semi 2. L’assenza di Joost non è stata ufficialmente spiegata nell’immediato (tolto un breve comunicato di EBU che riportava una generica “investigazione” che vedeva coinvolto l’artista olandese) e per ore abbiamo vissuto senza alcun aggiornamento in proposito – il tutto mentre si diffondeva ogni sorta di fake news sugli accadimenti del primo pomeriggio, Angelina Mango appariva a sorpresa in sala stampa per cantare Imagine, venivano annullate le varie conferenze stampa (tolta quella del JESC che si trasformava in una sorta di comizio improvvisato e imbarazzato di Ana María Bordas) e l’arena cominciava a riempirsi di nuovo per un jury show che fino all’ultimo non riuscivo a credere si sarebbe davvero tenuto.

E l’aurora dalle rosee dita ci consegnò alfine il sabato decisivo, con la notizia della squalifica definitiva dei Paesi Bassi che ha sorpreso me e Ruben Trasatti (Telesette) mentre ci trovavamo in visita al Museo di arte moderna. Rientrati in Arena in fretta e furia, abbiamo assistito all’ennesimo rincorrersi di notizie – vere o presunte – che facevano presagire il peggio per la finalissima: l’assenza di Bambie Thug dalle prove del pomeriggio, il ritiro di qualche spokesperson (prima Alessandra Mele, poi Käärijä), le voci incontrollate su una soffiata arrivata alla polizia di Malmö che presagiva una possibile invasione di palco durante l’esibizione israeliana, a cui faceva il paio la ben più realistica possibilità di una contestazione vocale in arena dei fan di Joost Klein infuriati per la squalifica del loro beniamino. Non era un’ipotesi campata in aria l’idea che alcuni artisti potessero proprio disertare la finalissima, anzi (come ha poi rivelato il tabloid norvegese VG) ben sei nazioni stavano minacciando il ritiro fino a un accordo trovato con EBU a meno di mezz’ora dall’inizio dello show. Il tutto nell’atmosfera già resa tesa da una seconda manifestazione pubblica organizzata subito fuori dalla Malmö Arena, con un pesante dispiego di forze dell’ordine a presidiare l’area già dal primo pomeriggio.

Non mi vergogno a scrivere che mentre avrei dovuto preoccuparmi solo di godere l’atto definitivo di questa stagione eurovisiva, l’unico mio pensiero era “come faccio a tornare a Lund sano e salvo se dovesse accadere il peggio?”.

Eppure non ce n’è stato bisogno, come non è stata (per fortuna) profetica la scelta di vestirmi totalmente di nero in ossequio alla morte imminente del mio contest musicale preferito. Alle 00:41 di domenica 12 aprile, quando Petra ha annunciato i 307 punti per l’Ucraina e tutta l’arena è esplosa in un urlo collettivo al definitivo sorpasso di Jerry Heil e Alyona Alyona su Eden Golan, tutto quello che sarebbe successo da lì in poi ha improvvisamente acquisito tutto un altro significato. Sano e salvo lo sarei stato, avrei vissuto per vedere un altro giorno – e l’ESC (verosimilmente) pure.

(N.B.: Rispondo in anticipo a chi verrà a contestare questa affermazione al grido di “dai, si è sempre saputo che non avrebbero fatto vincere Isr43l3”: 1) bravi, avete sicuramente più pelo sullo stomaco del sottoscritto e 2) in ogni caso, nelle immortali parole di Parruccone de La collina dei conigli (ed è già la seconda volta che ritorna in questa avventura): non se lo può immaginare chi non c’è stato)

LO SHOW

Dal punto di vista tecnico, avevo tutti i motivi per aspettarmi un’edizione che avrebbe ridefinito il benchmark di ciò che dovrebbe essere un Eurovision moderno. L’esperienza di SVT nell’organizzazione di show musicali dal vivo – in primis, ma non solo, il Melodifestivalen – faceva ben sperare in tal senso, come pure i proclami altisonanti di volere stabilire una nuova legacy di show eurovisivo dopo quella che fu la già iconica (per l’epoca) Stoccolma 2016.

Da grande sostenitore e apologeta di SVT, dico che i presupposti della vigilia sono stati rispettati solo a metà. Vedere dal vivo il palco proposto da Florian Wieder e Fredrik Stormby è stata la vera esperienza WOW di questa settimana eurovisiva svedese, ed è sicuramente apprezzabile lo sforzo di volere portare un’idea nuova e un’esperienza più a 360° per gli spettatori e il pubblico in arena. Non sono però convinto che la resa sullo schermo sia stata all’altezza delle aspettative, e trovo che la complessità dello show per quello che è diventato e il particolare layout del palco abbiano posto un’asticella molto alta sulla realizzazione delle performance live che SVT è riuscita a rispettare solo in parte: abbiamo assistito ad errori negli stacchi di camera per tutta la settimana, live show inclusi (con l’apice della performance finale dell’Austria rovinata a metà) e in generale le prove generali sono state costellate da problemi tecnici apparentemente evitabili (sicuramente dovuti anche al grande stress a cui è stata sottoposta l’intera produzione e all’atmosfera non esattamente idilliaca che pare si respirasse dietro le quinte).

Tutti hanno notato come l’impronta data allo show sia stata estremamente autoreferenziale, visto l’altissimo numero di ex vincitori e concorrenti passati presenti negli opening e interval act di tutte e tre le serate (uniche due eccezioni: il medley di Benjamin Ingrosso a fine prima semifinale e Björn Skifs in apertura della finalissima). Ciò non toglie che ci siano stati dei momenti belli e anche iconici: l’opening dell’edizione con Foureira-Chanel-Saade, l’omaggio di Johnny Logan a Euphoria, il medley tipo Super Bowl di Benjamin Ingrosso,  l’interval act-karaoke in stile Allsång på Skansen, gli Alcazar, il tributo agli ABBA, il pazzesco ritorno in scena di Loreen con il nuovo singolo.

Vero è però che se nel 2022 e 2023 l’ESC aveva cercato di uscire un po’ dal proprio circoletto ed espandersi a un pubblico più ampio, le scelte effettuate quest’anno l’hanno apparentemente riportato indietro di qualche edizione e l’effetto finale di ciò che è visto è stato un po’ una versione beta di Stoccolma 2016 (con l’interval act We Just Love Eurovision Too Much che sì, era divertente e godibile, ma non è stato recepito come Love Love Peace Peace e in più era preso pari pari da uno sketch analogo portato al Melodifestivalen otto anni fa). A Malmö girava voce che EBU e SVT fossero state costrette a questa “parata” di vecchie glorie per la rinuncia tardiva di diversi artisti di peso che non volevano associare il loro nome a quello di un ESC macchiato dalla presenza in gara di Israele; altri riportavano invece che già dal primo meeting dei capidelegazione la scaletta dei tre show era sostanzialmente quella che poi è stata realizzata. Ci vorrà tempo per arrivare a una versione ufficiale su questo tema, ma l’idea che Malmö 2024 avrebbe potuto e dovuto essere “altro” credo rimarrà nei pensieri di molti.

E infine sì, la mia ammirazione per Edward af Sillén non conosce confini e non verrà mai messa in discussione, ma alla luce dei fatti la canzoncina di Lynda Woodruff su Martin Österdahl rischia di risultare uno dei momenti peggio invecchiati di questi ultimi anni di Eurovision.

IL VINCITORE

The Code è diventato uno dei miei brani preferiti dell’annata a partire dal primo ascolto, in particolare perché ha messo in campo una formula super eurovisiva e in un certo senso “familiare” a livello di struttura ma riproposta in un pacchetto nuovo e originale. Questo non mi ha impedito di esprimermi in modo estremamente scettico – come gran parte del fandom – quando verso fine marzo la Svizzera è improvvisamente schizzata al primo posto della classifica delle scommesse, in seguito a un live quantomeno discutibile andato in onda su SRF.

Già dalla prima prova generale di mercoledì 8, in ogni caso, ho capito di aver commesso un grande errore di valutazione. La performance ideata da Benke Rydman e interpretata alla perfezione da Nemo – un vero e proprio capolavoro di tecnica vocale, atleticità, autocontrollo e ambizione nel metterla in pratica – ha trasformato un act che nelle premesse doveva essere divisivo e respingente (soprattutto ad est del Danubio) nella Loreen del 2024. Un po’ perché superato a destra da proposte che hanno fatto molto più discutere e si sono rivelate nella pratica ben più divisive di quanto lo fosse l’outfit portato da Nemo, un po’ perché comunque una parte consistente di pubblico ha saputo apprezzare il brano e permettergli di sfondare il muro dei 200 punti al televoto (me l’avessero detto anche solo una settimana prima di partire per Malmö, dubito fortemente che ci avrei creduto).

Ovviamente la vittoria svizzera non sarebbe stata possibile senza il plebiscito raccolto dalle giurie, che gli hanno assegnato in percentuale il punteggio più alto mai raccolto da una canzone all’ESC (365 punti su un massimo di 432, l’84.5% del totale; ben 72 giurati su 180 hanno messo Nemo al primo posto, addirittura 123 l’hanno piazzat* in una delle prime tre posizioni). É troppo? I croati, che hanno perso per soli 44 punti – distacco che avrebbero potuto facilmente colmare se fossero state in gara tutte le nazioni del blocco balcanico ritiratesi negli ultimi anni – direbbero di sì. Eppure possiamo davvero dire che ci fossero delle grandi avversarie in chiave giurie? Euro Jury aveva identificato uno scontro a 3 con Francia (penalizzata da una pessima performance di Slimane nella jury final) e Italia (ci torneremo presto), seguite a debita distanza dal Belgio (nemmeno qualificato alla finale). E sappiamo tutti che la stessa Croazia, terza con le giurie, non avrebbe raccolto buona parte di quei 210 punti se non fosse arrivata alla finale come favorita numero uno e dunque “voto utile” contro la possibile vittoria di Israele.

Se tutti giocano curandosi solamente del 50% del televoto, viene lasciata la porta aperta affinché uno o pochi act monopolizzino effettivamente la classifica delle giurie. É una lezione che avremmo già dovuto imparare dalla vittoria schiacciante di Loreen nel 2023 e invece si è ripetuta tale e quale nel 2024, con tante nazioni (Finlandia, Estonia…) che hanno buttato via un anno andando a scegliere dei gimmick eurovisivamente poco spendibili nella vana speranza di ripetere il successo di Käärijä, e altre (Portogallo, Germania…) che puntando dichiaratamente alle giurie sono riuscite a ritagliarsi un piazzamento dignitoso e ben sopra le aspettative della vigilia.

ITALIA

Chi mi ha letto durante questi mesi sa che praticamente dall’aftermath della finale di Sanremo mi sono schierato pubblicamente e vocalmente in favore di Angelina Mango e La noia, definendo il pacchetto italiano come una proposta da podio assicurato e finanche da vittoria. Ho sempre pensato che questo Eurovision 2024 presentasse un’opportunità unica per la delegazione italiana, sia per il valore effettivo della canzone e dell’interprete che per il livello francamente basso della concorrenza contro cui giocava. Più volte ho scritto “se non arriverà quantomeno il podio si dovrà necessariamente parlare di flop”, e ora che siamo qui a commentare un settimo posto (risultato più basso delle peggiori aspettative pre-contest) trovo sia un minimo riduttivo nascondersi dietro all’usato e abusato “fare meglio di così era impossibile”.

La mia opinione è che a conti fatti è mancato all’Italia un centinaio di punti a testa fra giurie e televoto rispetto a ciò che si poteva realisticamente ottenere, e che se così fosse stato si sarebbe potuto ottenere la medaglia di bronzo che a conti fatti ha invece sfiorato la Francia. Senza nulla togliere ad Angelina, a cui mi sento di fare i complimenti per l’impegno e lo sforzo profuso in questi mesi, credo che siano stati commessi tanti errori gratuiti nella trasposizione della performance sanremese sul palco dell’Eurovision – l’elemento che ho sempre definito *necessario* per il concretizzarsi del risultato previsto e che forse ho dato un po’ troppo per scontato. E se pure un settimo posto resta un risultato buono in termini di legacy e su cui Germania, Spagna e UK avrebbero messo la firma, a mio avviso si tratta di un outcome molto deludente se confrontato con le attese pre-contest (anche da parte di RAI e del team di Angelina) e alle risorse che l’Italia si può permettere di mettere in campo ogni anno.

Una delle cose che ho sempre pensato dopo la vittoria de La noia a Sanremo era che l’unico vero tallone d’Achille della nostra candidatura fosse la mancanza di una vera e propria narrativa o un punto focale che avrebbe fatto risaltare il brano fra altri 25, particolare comune a tutte le ultime vincitrici o quasi. L’ipotetico trionfo eurovisivo di Angelina sarebbe stato una vittoria in controtendenza, basata più sull’effettivo valore del pezzo, sullo star power dell’interprete e la sua capacità di “mangiarsi il palco” (venuta fuori a Sanremo fin dalla prima serata) che su un qualsiasi fattore esterno. Sulla carta, c’erano tutti i motivi per pensare che l’Italia potesse mettere d’accordo giurie e televoto più di ogni altra canzone in gara: i vari gimmick ed emuli di Käärijä si sarebbero pestati i piedi a vicenda, Svizzera e Francia avrebbero floppato al televoto, Israele e Ucraina sarebbero state smontate dalle giurie (e in ogni caso non avrebbero superato i 300 punti al televoto) permettendo ad Angelina di porsi come la perfetta vincitrice di compromesso.

La storia ci dice che l’edizione 2024 era molto meno debole di quanto fosse presumibile a marzo: Croazia e Svizzera (ma anche la Francia, per quanto potesse non piacere a molti) si sono presentate a Malmö alzando notevolmente l’asticella rispetto a ciò che avevano originariamente messo in campo, ottenendo un ottimo riscontro in uno scenario in cui i due elefanti nella stanza si sono comunque pappati assieme quasi il 30% dei punti assegnabili dal televoto. Allo stesso tempo, non c’è stato un momento durante l’ultima settimana in cui l’Italia non sia apparsa come più di una potenziale comprimaria, e l’assenza di un unique selling point che potesse farla emergere agli occhi di pubblico e giurati è risultata alla fine del tutto impossibile da superare.

Già prima di vedere l’esibizione dal vivo mercoledì non c’era stata UNA persona, tra i diversi stranieri con cui ho avuto modo di parlare, che alla mia classica domanda “who do you think is gonna win this?” avesse indicato l’Italia. É uno scetticismo che partiva da lontano e che a mio avviso non è del tutto imputabile a ciò che si è poi visto sul palco: dopo un mini-boost avuto alla vigilia del primo pre-party (26-30 marzo), gli scommettitori hanno abbandonato La noia e si sono messi a perseguire pressoché qualsiasi altra opzione alternativa. A conti fatti avevano ragione, eppure ad aprile era difficile – e frustrante – quantificare i reali perché di quel mancato sostegno oltre a una generica idea che “l’Italia non può rivincere così presto” (spesso accompagnata da un commento sarcastico sui fatti di Torino 2022) e “c’è un bias contro le artiste donne portate dall’Italia” (perché giustamente Nina, Emma e Francesca avevano lo stesso potenziale di Mahmood, Måneskin e Mengoni II). In ogni caso, La noia non è mai stata considerata una vera e propria favorita, e ne ha sicuramente fatto le spese a livello di narrativa mentre Croazia e Svizzera si prendevano le headline e la pubblicità gratuita dei primi articoli sull’Eurovision pubblicati dalla stampa mainstream.

Devo dire che prima di partire per Malmö non avevo avuto grandi avvisaglie del crollo imminente del castello di carte. Sì, c’era stata la distrazione del leak della stand-in rehearsal (fatto senza precedenti in 17 anni che seguo l’ESC, a mio avviso gravissimo, ma conclusosi prevedibilmente a tarallucci e vino con tanto di framing al limite del complottistico “ci vogliono sabotare perché ci temono” (?)) che già aveva fatto alzare qualche sopracciglio perché troppo scura, troppo confusionaria, troppo low energy, troppo tutto. Un po’ di terreno era stato poi recuperato con le prove vere e proprie, con video pubblicati nei quali sono state sparate davvero un po’ tutte le cartucce a disposizione.

Aggiungo che le aspettative erano alte anche per la conferma, avvenuta nelle ultime ore prima della mia partenza per Malmö, che la performance italiana sarebbe stata curata da un vero e proprio dream team: al coreografo tedesco Mecnun Giasar, già responsabile delle visual dei tour mondiali di BTS, Madonna e Rosalìa, si sarebbero aggiunti due degli artefici della vittoria dei Måneskin a Rotterdam e cioè lo show designer Claudio Santucci e lo stilista Nicolò “Nick” Cerioni (che aveva già firmato gli abiti di Angelina a Sanremo). Il tutto gestito dalla regia occulta di Marta Donà, manager al suo quinto ESC dopo quelli al seguito di Marco Mengoni, Francesca Michielin e degli stessi Måneskin: una delle figure più competenti, furbe e sgamate del panorama musicale italiano, attorno alla quale gli eurofan di casa nostra hanno sviluppato in questi ultimi anni una sorta di culto. Vedevo molto positivamente la presenza di Donà, che più volte ha dimostrato coi fatti di essere perennemente due o tre passi avanti a livello strategico rispetto a tante personalità che vivono di Eurovision per dodici mesi l’anno; idem la scelta di affidarsi a un coreografo di fama internazionale completamente digiuno di ESC (ricetta che aveva già funzionato per la Spagna nel 2022, con la coreografia di SloMo affidata al coreografo delle BLACKPINK Kyle Hanagami) e a una messa in scena con cinque ballerine, che anche gettando l’occhio al suo portfolio lasciava presagire qualcosa di diverso e “nuovo” rispetto alla caratteristica conformazione eurovisiva a quattro (più eventuale corista nascosto).

Altro incoraggiamento è arrivato dalla performance di martedì pomeriggio all’Eurovision Village, a cui tutta la stampa è stata gentilmente invitata (e accompagnata) da RAI e che per la prima volta ci ha dato un’idea di quella che sarebbe stata la coreografia sul palco e l’interazione con le ballerine. Sarà stato il contesto particolare e il calore del folto pubblico accorso sotto l’Euphoria Stage, sarà stato il mood rilassato e scanzonato durante il viaggio di ritorno assieme a tutta la delegazione, ma in quel momento sembrava facile un po’ a tutti pensare che un ottimo piazzamento fosse dietro l’angolo.

Tutti i nodi sono però venuti al pettine nel pomeriggio di mercoledì 8, quando Angelina è salita sul palco per la prima prova generale della seconda semifinale. Avevo detto “qualsiasi cosa accada, penso vincerà l’Italia e sarà difficile che cambi idea prima di venerdì o sabato” ma la realtà è che già da quella prima esibizione ho realizzato che molto difficilmente l’avrebbero spuntata. La coreografia, che al Village era sembrata centrata e funzionale allo scopo della canzone, improvvisamente mi è sembrata una grande distrazione che distoglieva l’attenzione da Angelina e dalla sua presenza magnetica sul palco; idem per l’outfit, già criticato su Twitter durante le prime prove, ma mai messo seriamente in discussione dalla stampa italiana a Malmö. I dubbi sono se possibile aumentati con il jury show della sera, quando abbiamo avuto modo di renderci conto che la resa a schermo non era decisamente dove avrebbe dovuto essere: tantissimi wide shot nel primo minuto e focus quasi più sulle ballerine che sulla cantante, il climax a cappella (da sempre a mio avviso la parte più forte del pezzo, che mi aveva completamente conquistato fin dalla prima esibizione sanremese) buttato via quasi del tutto con il cameraman che le girava attorno due volte riprendendola di schiena proprio sul culmine, infine gli ultimi 30″ con la pioggia di scintille visivamente molto impattante – anche se in arena di più – ma anche qui con Angelina costretta a dare le spalle alla camera per tornare a sedersi sul “trono”.

A notte fonda, sul treno che ci riportava a Lund al termine della giornata, io e Ruben abbiamo dissezionato letteralmente ogni aspetto di ciò che avevamo visto sul palco giungendo rapidamente alla conclusione che nulla o quasi stava andando secondo i piani: sul mio personale banco degli imputati è salita al primo posto la scelta di coinvolgere Angelina nella coreografia di danza vera e propria, costringendola a movimenti che almeno a mio avviso ne limitavano la naturale spontaneità sul palco. Altrettanto problematico era il fatto che per quanto ci sforzassimo, non riuscivamo a trovare un senso al “racconto televisivo” che lo staging voleva incanalare: la costruzione della performance dava l’idea di essere più pensata per il pubblico in arena, quasi a mo’ di showcase in un concerto, che per la televisione. Sono andato a letto ripromettendomi di indagare maggiormente questo tema il giorno seguente.

Le due performance del giovedì hanno portato dei netti miglioramenti a livello di camera work, con Angelina molto più a suo agio e il climax finalmente valorizzato in particolare nella diretta della semifinale (a mio avviso la migliore performance di tutta la settimana). Subito dopo il family show è stata organizzata una sessione di brevi interviste con i giornalisti presenti in loco, occasione che avrei voluto cogliere al volo per fare le due domande che avevo in testa: come si era arrivati alla decisione di coinvolgere Giasar, Cerioni e Santucci, e in subordine quale fosse la visione artistica che aveva portato all’ideazione della performance appena vista sul palco. A quest’ultimo dubbio avevamo già ottenuto una parziale risposta dal team di Angelina, e cioè che si fosse voluto rappresentare “l’umanità e la fragilità” (…) dell’artista sul palco – interpretazione che peraltro collimava con le parole pronunciate dalla cantante proprio quella mattina in collegamento con Chiamate Roma 3131. Armato di questa consapevolezza, e sapendo che nei due minuti di intervista avremmo avuto a disposizione solo Angelina (che non sarebbe stata sicuramente in grado di aggiungere a quanto già sapevamo) ho deciso di tenermi in caldo la domanda per la conferenza stampa delle Big 5, in programma il giorno seguente…

…solo che, come sappiamo, quella conferenza non si è poi mai tenuta. E nel frattempo l’Italia aveva subito l’ennesimo e definitivo tracollo nelle scommesse, in parte propiziato dal leak del televoto italiano al termine della seconda semifinale (che aveva fatto crollare le quotazioni di quasi tutte le canzoni tranne Croazia e Israele). Sul tema del leak si è detto tutto e il contrario di tutto: chi ci ha voluto vedere un piano occulto di RAI per svelare al mondo i consensi che stava ottenendo Eden Golan e “salvare” così l’ESC da una sua vittoria, chi ha insinuato che il piazzamento inferiore alle aspettative sia stata una sorta di punizione per l’errore commesso da RAI (o per il sostegno del pubblico italiano a Israele). A distanza di due settimane, continuo a pensare che l’errore sia stato commesso in buona fede e che l’unico modo in cui ha effettivamente danneggiato la partecipazione di Angelina è stato l’averla fatta scivolare nelle quotazioni fuori dal giro dei primi outsider, convincendo i produttori a premiare altre nazioni nella stesura del running order della finale (Svizzera, Croazia e Francia, in quel momento davanti a La noia per i bookmakers, hanno ottenuto rispettivamente le posizioni #21, #23 e #25 mentre all’Italia è toccato il numero #15).

Negli ultimi due giorni, onestamente, di Italia non si è più parlato se non per gli ultimi, disperati tentativi di far girare la narrativa: l’immagine di Angelina che arriva in sala stampa nel bel mezzo del caos di venerdì pomeriggio, legge un generico messaggio di pace e canta Imagine in versione acustica rimarrà nella memoria di tutti quelli che erano presenti per molti anni a venire. Come pure ricorderemo la sua entrata in scena durante la flag parade, con il tricolore appoggiato al vestito nero in un modo che a tanti commentatori ha evocato un richiamo (voluto? Non voluto? Da Marta Donà mi aspetterei questo e altro) alla bandiera palestinese.

Il settimo posto è stato recepito dai giornalisti italiani in modo generalmente tiepido, sicuramente con un filo di delusione per le prospettive della vigilia tutto sommato stemperato dalla consapevolezza di aver raccolto un altro piazzamento onorevole. Delusione che hanno indubbiamente condiviso sia RAI che il team di Angelina, entrambi giunti in Svezia con ben altri propositi (anche se nessuno ha osato dirlo apertamente) e convinti di poter trasformare lo sforzo e le risorse profuse in un risultato molto migliore.

Biasimare a posteriori le scelte di tre direttori creativi del livello di Giasar, Santucci e Cerioni, per me che sono un signor nessuno a loro confronto e non possiedo i titoli per criticare nel merito il loro operato (se non i 17 anni trascorsi dietro a questo contest), è quantomeno difficile se non proprio fuori luogo. L’impressione che ho avuto è che si sia voluto semplicemente provare a riproporre la ricetta vincente dei Måneskin, buttando metaforicamente sul palco tanti soldi senza una vera visione di fondo di ciò che questa performance doveva comunicare (o perlomeno la visione non ci è stata comunicata, e lo dico perché avrei avuto tutto l’interesse a raccontarla e parlarne al mio pur piccolo seguito in termini positivi!).

Il messaggio che a mio avviso NON deve passare ora è che l’Italia non sia capace di mettere insieme una performance eurovisiva articolata e che sia preferibile riproporre in toto quella che vince Sanremo. Posto che ancora non ho capito in che modo Angelina fosse fragile mentre si esibiva con attorno ballerine, pyros e letteralmente un TRONO su cui si sedeva a mo’ di regina, come ha fatto a passare l’idea che la “fragilità” fosse l’elemento su cui puntare se a Sanremo aveva vinto comunicando esattamente l’opposto? Non credo che la performance presentata in Svezia abbia valorizzato Angelina, né la canzone, né il racconto che se ne poteva fare – ma questo non vuol dire che la si doveva necessariamente risolvere mandando lei da sola sul palco con una canzone e un sogno tipo Lena a Oslo 2010: una messa in scena sensata, anche con ballerini, ma al servizio dello star power e della freschezza di Angelina avrebbe avuto a mio avviso molte più chance di emergere nel contesto di questo ESC. (Rimando alla mia idea LARVALE di staging ESC scritta prima della vittoria sanremese – l’anno prossimo, se avrò tempo, mi cimenterò magari in uno storyboard o una timeline di possibile adattamento a CuePilot/LiveEdit – per fare capire cosa intendo.)

Non si può criticare né al team di Angelina né alla delegazione una mancanza di impegno, perché a conti fatti è stata una delle partecipazioni in cui si è maggiormente investito a partire dalla decisione di fare tutti i pre-party, di ridurre al minimo gli impegni italiani dell’artista prima del viaggio per Malmö, di portarla ad esibirsi alla TV croata di fronte a una platea balcanica che a conti fatti si è dimostrata fortemente ricettiva alla proposta presentata. La realizzazione finale della performance, però, ha riportato a mio avviso a galla un tema che molto spesso ha rappresentato il limite della partecipazione italiana all’ESC: il fare le cose a modo nostro, senza la cazzimma o il pensiero strategico di altre nazioni, riuscendo poi alla fine a mettere una o più toppe con la scusa che “siamo l’Italia” e che grazie a Sanremo partiamo da un materiale umano infinitamente più alto rispetto a quello della maggior parte dei concorrenti. E questa cosa continua ad emergere nella messa in scena delle performance, sempre più importante nell’Eurovision moderno, spesso a conti fatti sbagliata anche a fronte di risultati importanti. (Non è un caso, almeno secondo me, che l’insperato 4° posto di Mengoni a Liverpool 2023 sia arrivato affidandosi – non ufficialmente – a Marvin Dietmann, coreografo austriaco attivissimo nella scena ESC).

A mio parere, il modello italiano rischia di mostrare tutte le sue crepe non appena scenderà il livello dei brani che portiamo all’ESC (o Sanremo incoronerà la vincitrice “sbagliata”, e in quest’ottica siamo stati estremamente fortunati nel recente passato). Il settimo posto di Angelina deve essere preso come un punto di partenza – e non di arrivo – per tornare ad avere una forte guida strategica in termini di gara, che possa indirizzare il gruppo di lavoro dell’artista prescelto nel concepire una performance che si adatti il più possibile alle esigenze dell’Eurovision moderno.

ISRAELE

Non sarei tenuto a dirlo, ma lo scrivo ugualmente in modo da contestualizzare quello che sto per scrivere. La mia posizione sul conflitto israelo-palestinese si può riassumere più o meno così: non simpatizzo con Hamas né con il governo di Netanyahu o l’IDF, simpatizzo con i palestinesi che ripudiano il terrorismo islamico e con gli israeliani che ripudiano il massacro del popolo palestinese. In un mondo ideale, mi piacerebbe che lo Stato di Israele conviva pacificamente con uno Stato indipendente di Palestina (con termini analoghi a quelli degli accordi di Annapolis), con USA e determinate nazioni della Lega araba ad agire come garanti della convivenza civile.

Non mi sono mai pubblicamente espresso in questi termini perché mi rendo conto che da una parte si tratta di una soluzione in questo momento impossibile da percorrere (oltre a suonare come il classico discorso della miss che desidera la pace nel mondo) e dall’altra che questa presa di posizione, perlomeno in un contesto iper-polarizzato come quello di Twitter, mi vedrebbe LINCIATO senza appello e probabilmente cancellato a vita dai tifosi (leggasi: fanatici) di entrambe le “squadre”.

In ogni caso, come rappresentante della minoranza moderata all’interno del fandom, inizialmente mi consideravo tiepidamente favorevole alla partecipazione di Israele all’Eurovision 2024. In primis perché trovavo che l’equivalenza fra Israele e Russia (esclusa dall’ESC e fuoriuscita autonomamente da EBU/UER nel 2022 in seguito all’invasione dell’Ucraina) fosse quantomeno intellettualmente disonesta, poiché contrapponeva una nazione che aveva invaso illegalmente un’altra nazione in gara a uno stato che *nominalmente* si stava difendendo da un’organizzazione terroristica organizzata. In secundis, ed era il tema a mio avviso più importante, perché Pervyj Kanal è stato ed è tuttora il braccio di propaganda dell’autocrazia di Putin e non rispetta i canoni di pluralismo stabiliti nello statuto di EBU (come anche la bielorussa BTRC, che per questi motivi – e non per il coinvolgimento nell’invasione ucraina – è stata sospesa da EBU/UER nel 2021) mentre KAN ha sempre garantito un livello sufficiente di libertà di parola e di rappresentanza alle voci contrarie all’attuale governo (tanto da aver rischiato di essere smantellata e decommissionata da Netanyahu stesso). Al di là delle idee e delle convinzioni personali di ognuno, escludere KAN da Malmö 2024 era sostanzialmente impossibile sulla base dei termini imposti dal regolamento, anche perché la giurisdizione di EBU può sanzionare il comportamento dei broadcaster partecipanti ma non quello dei governi (per ragioni che dovrebbero essere chiare a tutti).

La situazione è però cambiata quando è stato chiaro, a me come a tutti, che la campagna eurovisiva di KAN sarebbe stata improntata essenzialmente sulla carta del vittimismo. Non tanto per la scelta della canzone e la polemica attorno al testo cambiato, perché in ogni caso una persona che ignorasse totalmente il contesto storico-politico in cui si muove Israele non avrebbe potuto trovare un significato politico nelle parole di Hurricane (non più, quantomeno, di altre canzoni che sono state approvate e presentate in passato). E dell’esistenza di October Rain, nonché dell’epigona Dance Forever, sappiamo soltanto perché KAN ha voluto rendere pubblica la notizia che entrambe le canzoni erano state bocciate da EBU.

Il modo in cui i media israeliani hanno presentato il processo di selezione del brano ha cementato la narrazione con cui la nazione si sarebbe presentata a Malmö: noi soli contro tutti, mandiamo la nostra artista al prevedibile macello (mediatico e psicologico), facciamo in modo che il contest diventi un referendum pubblico sul supporto dell’Europa a Israele e dimostriamo coi fatti quanto il pubblico sia disposto a schierarsi dalla nostra parte. Era una mossa scontata e prevedibile, anche se amplificata oltremodo dalla stupidità della fazione opposta: chi ha fischiato Eden in arena ha fatto solamente il suo gioco e aiutato a consolidare l’immagine (in parte giustificata, in parte pompata ad arte) di lei povera vittima desiderosa di lasciare parlare solo la propria musica e zittita dalla campagna di odio antisemita. Stare in totale silenzio o voltarle le spalle non sarebbe stato abbastanza dramatic disruptive per la sensibilità della Generazione Z? Forse sì, ma almeno avrebbe ridotto il potere dei titoloni, delle prese di posizione e degli endorsement pubblici di politici e intellettuali (Rob Roos, Assita Kanko, Bernard-Henri Lévy…) che hanno fatto tanta pubblicità gratuita alle grievances di KAN e consentito a Israele di portare a casa 323 punti di televoto e il primo posto in quasi tutte le nazioni del blocco occidentale.

In tutta onestà posso dire di essermi preso l’impegno di trattare Israele allo stesso modo delle altre 36 nazioni in gara e di averlo mantenuto per quanto possibile. Sarei stato molto più bendisposto nei loro confronti, in ogni caso, se i membri della delegazione israeliana avessero fatto anche solo il minimo sindacale per porgere un ramoscello d’ulivo e dimostrato nei fatti di essere a Malmö per celebrare la musica e non per alimentare il fuoco delle inevitabili polemiche che li avrebbero accolti (cosa che peraltro avrebbe svuotato di senso le istanze delle frange più estreme dei contestatori, ma non avrebbe causato allo stesso modo lo SDEGNO dei televotanti).

Quello a cui abbiamo invece assistito è stata una sorta di “goccia cinese”, una provocazione continua con l’obiettivo di sfinire e spingere ad errori gratuiti i propri avversari. Anche nel piccolo, come di quel giornalista che al termine della semi 2 si è alzato e a voce altissima ha urlato qualcosa tipo “ma che sorpresa, con una sola esibizione siamo saliti dall’ottavo al secondo posto nella classifica delle scommesse” – come se non sapessimo tutti quanti che il motivo del balzo in avanti di Eden era stato il leak del televoto italiano. Oppure il reel pubblicato dall’account Instagram governativo dove si suggeriva che il voto degli “amici” di Israele avrebbe potuto cubare i 400 punti e oltre in grado di sovvertire una cattiva votazione delle giurie.

(Per onore di verità, va riportata anche la versione del capodelegazione e commentatore TV israeliano Yoav Tzafir: la provocazione è stata degli altri act in gara nei confronti di Eden e della delegazione israeliana, in particolare dopo la scalata di Eden nelle scommesse e la possibilità concreta che potessero portarsi a casa il microfono di cristallo. Tzafir ritiene anche che il leak del voto italiano sia stato fondamentale nel convincere molti giurati a non votare Hurricane in finalissima.)

All’Eurovision si va per competere in musica ed è qualcosa che tutti gli artisti mettono in conto, ma nessuno firma per partecipare agli Hunger Games. Ai sensi del regolamento di EBU, ci sono gli estremi oggettivi per definire alcuni comportamenti di KAN passibili di sanzione e continuare a non esprimersi pubblicamente in questi termini da parte degli organizzatori non farà altro che rafforzare l’idea (condivisa anche da broadcaster e personalità influenti della bolla) che ad Israele venga applicato uno standard diverso da quello delle altre nazioni in gara.

JOOST KLEIN

I fatti come sono stati raccontati li sappiamo tutti. La versione di EBU è che al termine della seconda semifinale Joost stava venendo filmato da una cameraman mentre rientrava in green room, e che infastidito da ciò abbia rivolto un “gesto minaccioso” alla malcapitata e spinto violentemente via da sè l’obiettivo; il broadcaster olandese AVROTROS conferma sostanzialmente questa versione, aggiungendo però che Joost non aveva consentito ad essere ripreso in quel frangente, che l’alterco si sia limitato a un movimento inconsulto dell’artista verso l’operatrice e che l’incidente non sia stato grave abbastanza da giustificare il provvedimento di squalifica che è arrivato sabato mattina.

Ora, partendo dal presupposto che già prima dell’esclusione dei Paesi Bassi dalla gara il tribunale dei social si era già pronunciato e aveva scagionato Joost sulla fiducia da accuse che ufficialmente non erano ancora state mosse, trovo che la cosa migliore che si possa fare in merito a questo tema sia attendere svolgimenti – perlomeno finché non si concluderà la vicenda legale che lo vede coinvolto.

Ancora dopo due settimane non riesco a non pensare che se davvero EBU è arrivata alla decisione irrevocabile di escludere dalla gara un fan favorite (e una delle nazioni più influenti del contest, seconda solo alle Big 5 a livello di contributi versati) a meno di 12 ore dalla finalissima, questo deve essere necessariamente successo previa consultazione col proprio team legale, che in base al regolamento di Eurovision e alle prove a disposizione avrà ritenuto che il miglior corso d’azione possibile fosse la squalifica.

E se davvero si sono presi questo rischio, assieme a quello dell’inevitabile e irreversibile perdita di credibilità per il brand in una nazione fondamentale per gli equilibri dell’ESC, significa che gli elementi a carico dell’accusa di Joost nel processo che sta per cominciare devono essere quantomeno convincenti. Arrivasse l’assoluzione, non solo Joost e AVROTROS sarebbero rispettivamente autorizzati a rifarsi su EBU del danno d’immagine e dei mancati introiti derivati dalla non partecipazione alla finale, ma ne conseguirebbe l’ennesimo colpo alla reputazione del contest e del board dirigenziale che lo gestisce.

LO STATO DEL FANDOM

Quella dell’ESC 2024 è stata la prima edizione post-COVID in cui la tossicità del fandom eurovisivo non ha avuto un ruolo importante nel racconto delle due settimane decisive. Ciò non significa, ovviamente, che questo problema si sia magicamente risolto – ma soltanto che tutto ciò che è successo a Malmö ha in qualche modo offuscato il resto.

Sono diversi anni ormai che mi scaglio contro ciò che è diventato il seguito più “assiduo” dell’Eurovision, in particolare su Twitter perché è il social network che uso maggiormente, ma vale lo stesso (se non peggio) per Instagram e TikTok. Decine e decine di account con seguiti importanti – per gli standard delle piattaforme – condividono ogni giorno prese di posizione da fondamentalisti integralisti che farebbero passare lo stesso Abu Musab al-Zarqawi per un moderato, e la cosa può ancora fare ridere se il tema del giorno è Loreen o Käärijä, RAI o SVT, Sinceramente o La noia, slip o boxer.

Il problema è quando poi, come quest’anno, il contest si trova ad affrontare questioni che non si possono risolvere a colpi di tweet caustici, frecciatine e SLAY YAS QUEEN. A mio avviso l’atteggiamento della parte più rumorosa ed “esposta” del fandom nei confronti di Israele (e in misura minore dell’Azerbaijan) è stato un grande autogol, un po’ perché come vedevamo prima ha involontariamente aiutato il racconto vittimistico su cui puntava KAN, un po’ perché la caccia alle streghe e la cancellazione immediata di qualsiasi artista o figura legata all’ESC che avesse messo anche un solo like a una frase o un post fuori contesto di un israeliano qualsiasi ha avuto come prevedibile conseguenza un ulteriore peggioramento della relazione (già altamente parasociale) tra fan e artisti che certo non invoglia chi conosce poco le dinamiche del contest a prendervi parte. Soprattutto – e mi ci metto io per primo – perché ha reso letteralmente IMPOSSIBILE intavolare una discussione costruttiva su questo tema, perlomeno se il tuo interlocutore sa rispondere solo con “dal fiume al mare” e non saprebbe poi dirti quale sia il fiume e quale il mare a cui si riferisce.

Sarà pur vero che ogni fandom è per definizione tossico, ma credo che l’avere attivamente coltivato una fanbase molto giovane, altamente impressionabile e soprattutto terminally online – dinamica cominciata con l’avvento e l’affermazione di Wiwibloggs, che ha fatto da trait d’union tra i fan dell’Eurovision e quelli altrettanto tossici del reality show RuPaul’s Drag Race – sia una colpa imputabile in parte anche a EBU. Da una parte si è cercato di ripulire l’ESC vero e proprio, riducendo all’osso il ruolo dei fan media e restringendo le possibilità di coprire l’evento a chi spende tempo, energie e spesso soldi per seguirlo di persona e farci tanta pubblicità gratuita; dall’altra si è lasciato proliferare e spesso anche incoraggiato (rimpiazzando i fan media con TikTok, che da tre anni è “Official Entertainment Partner” e non si è capito ancora bene in che ruolo) i comportamenti negativi dei fan online, che comunque creano engagement e visibilità al contest.

Il mio pensiero resta sempre tale: l’esposizione che comporta la partecipazione all’Eurovision, e la politica di EBU che A PAROLE si impone di tutelare i concorrenti dall’odio online ma nella pratica lo ignora o al peggio addirittura lo fomenta, scoraggia (soprattutto in certi mercati) gli artisti più di peso dal prenderne parte. Una buona fetta dei fan duri e puri dell’ESC dovrebbe farsi un serio esame di coscienza e chiedersi se un fandom che periodicamente deve fare i conti con razzismo, antisemitismo, violenza verbale, fat-shaming, ageismo, misoginia, transfobia – e potrei andare avanti – rappresenta degnamente lo slogan “United By Music” che tanto viene sbandierato quando fa comodo.

MALMÖ TRA LUCI E OMBRE

Uno degli esempi più eclatanti sul divario ormai inconciliabile tra i fan e la realtà è stato il trattamento rivolto (perlomeno su Twitter e Discord) alla città ospitante. Siccome la narrativa che andava portata avanti era che nessuno a Malmö voleva l’Eurovision – opinione legittima, ma non condivisa dagli svedesi che io e altri abbiamo incontrato e con cui abbiamo parlato di persona – una parte consistente del fandom si è presa il compito di massacrare sistematicamente l’organizzazione degli eventi collaterali, a partire dall’Eurovision Village di cui sono stati criticati i due palchi (mentre erano ancora in costruzione) e l’arco di entrata (che in realtà non era l’entrata vera e propria, ma solo una sorta di “totem” che anticipava i controlli; ho documentato qui l’ingresso ufficiale).

Per quello che ho potuto sperimentare io, il mood del Village il martedì pomeriggio è stato paragonabile a quello che avevo vissuto durante la mia visita a quello di Liverpool: tanta gente presa bene, tantissimi locals, e nulla della tanto decantata “indifferenza” che veniva sbandierata in quelle ore da chi commentava dal proprio divano. Certo l’atmosfera non era la stessa del 2023 (o del 2022, almeno secondo i fortunati che l’hanno vissuto di persona) ma è innegabile che la scorsa edizione abbia settato uno standard che fino a pochi anni fa sembrava irrealistico. Parliamo di Kiev 2017? Di come la maggioranza degli ucraini che si incontrava in giro per Kiev avesse al massimo una vaga contezza che stesse accadendo *qualcosa* nella loro città, o addirittura non ne avesse proprio idea? Di come l’International Exhibition Centre fosse letteralmente circondato da un cordone infinito di poliziotti, come se poi la presenza di forze dell’ordine fosse un elemento negativo e non comune a qualsiasi manifestazione internazionale? Get fucking real.

Il problema di Malmö è stato sostanzialmente uno, inevitabile e già sperimentato nel 2013: messa di fronte a una scelta, la maggior parte dei fan e dei turisti che intende presenziare all’evento preferirà sempre soggiornare (e portare i propri soldi) a Copenaghen. Per la Svezia, ospitare a Malmö era una lose-lose situation anche senza tutto il contesto legato al tema di Israele – che se non altro ha offerto loro una scusa da rivendersi, oltre a una bella vetrina per la sicurezza svedese il cui operato è stato una delle poche cose davvero ben riuscite in questo ESC. Una volta escluse dalla lotta Stoccolma e Göteborg, poteva finire solo così ed era chiaro a tutti che gli sforzi si sarebbero concentrati più sullo show vero e proprio che sul “contorno” (un po’ come successe, dall’altra parte dell’Öresund, a Copenaghen 2014: una success story solo per chi non l’ha vissuta in prima persona).

Non ci resta che sperare la prossima volta che la Svezia si troverà a ospitare sia pronto il nuovo Scandinavium, o quantomeno il “nuovo” Globen. In ogni caso Göteborg aspetta questa vetrina da 39 anni (durante i quali Malmö ha ospitato tre volte e Stoccolma due) per cui troverei giusto che sia il Västergötland a prendersi le luci della ribalta e offrire se possibile un “gusto” nuovo nell’organizzazione svedese del contest musicale più seguito al mondo.

COSA HO IMPARATO

Le lezioni che mi porto a casa da questa edizione sono un bel po’, ma era abbastanza inevitabile in un anno in cui i miei pronostici pre-contest sono stati decisamente poco accurati. Lascio qui sotto sei piccoli appunti per il Davide futuro, sperando di trarne insegnamento per il coverage eurovisivo che verrà:

Non giudicare senza appello una proposta sulla base di una performance non eccelsa alla finale nazionale, in uno showcase televisivo o ad un preparty. Buona parte del mio scetticismo pre-contest sulla Svizzera nasceva dalla prima esibizione di Nemo alla TV nazionale, come ritenevo poco credibile la candidatura di Baby Lasagna per la performance messa in atto al DORA e Bambie Thug per quella vista al Late Late Show. Si è dimostrato invece quest’anno che, se l’artista e il pacchetto che presenta hanno abbastanza “sostanza” (o arrivano all’ESC con una storyline forte) possono sempre emergere durante la settimana decisiva.

Nessuna proposta è troppo “divisiva” se si trova la chiave giusta per metterla in scena. Sia l’Irlanda che la Svizzera, nel mio pensiero prima di imbarcarmi per Malmö, avrebbero pagato lo scetticismo del pubblico generalista (soprattutto nell’Europa dell’est) e faticato molto a mettere insieme un televoto consistente. Non è stato così perché entrambe le delegazioni hanno saputo mettere in campo un’idea di staging vincente e proporre un racconto televisivo della loro canzone che guardasse oltre la piccola nicchia di mercato rappresentata dal fandom. Checché ne dicano i detrattori delle due proposte summenzionate, il paradigma “lo shock value e l’esagerazione pagano sempre” non vale per tutti – citofonare Olly Alexander.

Ciò che vedi in arena non è ciò che il pubblico vedrà sullo schermo. Prima di quest’anno, in tutte le edizioni che ho seguito di persona, mi era successo una sola volta che una nazione data del tutto spacciata dopo le prove finisse per qualificarsi o che una che avevo inserito con convinzione fra i “semafori verdi” restasse fuori. (Parliamo di Finlandia 2018, che vedevo eliminata e passò il turno per il rotto della cuffia in una semifinale strana). Quest’anno, purtroppo, mi è capitato ben due volte: non è entrata in finale la Polonia che in arena mi aveva coinvolto tantissimo, mentre ce l’ha fatta la Slovenia che avevo sempre ritenuto una NQ sicura. Per il futuro, specie per esibizioni complesse come quella portata da Luna, converrà concentrarsi sul palco durante la prima prova in arena e lasciarsi un minimo di dubbio in più per la resa video (che andrà giudicata piuttosto durante la seconda prova, evitando di ruotare continuamente la testa tra palco e schermi a mo’ di gufo e/o Linda Blair ne L’esorcista come ho fatto spesso quest’anno).

Non fidarti MAI delle foto rilasciate da EBU dopo le prove a porte chiuse. Questa foto urlava winner vibes. Questa esibizione un po’ meno.

Avere tanti “amici” in semifinale è un bene per qualsiasi nazione, ma da soli non bastano per qualificare nessuno. Avevo dato per scontato il passaggio del turno della Polonia (semi 1) grazie alla presenza tra i votanti di Regno Unito, Irlanda, Lituania, Germania e Ucraina, idem dell’Albania (semi 2) che poteva contare su tutto il blocco mediterraneo. Non ce l’hanno fatta né l’una né l’altra, Besa addirittura portando a casa solo 14 punti in 4 nazioni – gli stessi della Grecia 2023, anch’essa tenuta in gioco fino all’amaro calice grazie a un sorteggio super favorevole. Certo la presenza di qualche amico può dare la spinta decisiva a una nazione che si trova sulla linea del 10° posto (vedi Slovenia, premiata da una composizione di semifinale con tutto quel che restava del blocco balcanico e poi sprofondata in finalissima) ma gli “amici” e i “vicini” da soli non bastano più per qualificarsi se il pacchetto presentato è da bottom 3 conclamata.

– Accetta che (all’Italia) non basta presentarsi per vincere un Eurovision. Anche in un’edizione sulla carta “scarica” come questa, il grosso del lavoro che porta a una vittoria è quello che si compie nelle due settimane decisive. Pensare che l’Italia, in quanto Italia, possa salire sul podio e finanche vincere senza necessariamente mettere assieme tutti i pezzi di questo lavoro è ingenuo per quello che è diventato l’Eurovision e può esporre facilmente ad accuse di parzialità e sensazionalismo (corroborate dalla solita e pestilenziale scaramanzia italica). Il potere di Sanremo – il più grande “soft power” che l’Italia eurovisiva possiede in questo momento – è un’arma a doppio taglio, perché espone a rischi (il taglio della canzone, la necessità di stravolgere la performance e renderla appetibile in chiave ESC) che la delegazione in questo momento non sembra essere totalmente in grado di disinnescare.

SVIZZERA 2025

Okay, abbiamo salvato l’Eurovision e ci apprestiamo a lanciarci verso la nuova stagione. What next?

Eurovision needs some fixing“: sono state (quasi) le prime parole del vincitore Nemo ed è un sentimento che un po’ tutta la comunità degli appassionati deve condividere dopo la stagione appena trascorsa. Vedendo le prime azioni di EBU, però, non sembra esattamente in programma un cambio di rotta: i toni con cui sono stati presentati i dati di ascolto e di engagement social sono stati entusiastici, quasi a voler zittire i residuati delle polemiche che hanno catalizzato la settimana di Malmö. Martin Österdahl, Dave Goodman e tutte le altre figure contestate sono ancora al loro posto, e a questo punto ci si può immaginare che vi rimarranno perlomeno fino a fine estate. Peraltro la persona che avevo individuato come potenziale successore di Österdahl – Bakel Walden, svizzero, eletto l’anno scorso come presidente del Reference Group ma poco conosciuto all’interno del fandom e quindi “immune” dal backlash dell’ESC 2024 – è stata l’unico membro EBU ad esporsi pubblicamente sui fatti di Malmö, assumendo una posizione salomonica nei confronti dell’intera situazione che non gli è certamente valsa il favore del fandom.

Il primo pensiero che ho avuto all’annuncio della vittoria svizzera (dopo aver saltato di gioia per mezza sala stampa e aver cantato il reprise di The Code con la mano sul cuore) è stato che riportare l’ESC dove tutto ha avuto inizio può essere una grande opportunità di marketing – se avessimo ancora uno slogan ufficiale ad edizione vedrei benissimo Music’s Coming Home – ma allo stesso tempo dà ad EBU l’ennesima opportunità di perpetuare la loro visione dell’ESC come di un evento globale e “cool”, con una portata e un’attrattiva che vadano oltre la nicchia dei fan e abbraccino più ampie opportunità di guadagno e marketizzazione dell'”esperienza eurovisiva”. Il baricentro della competizione, che negli anni 2000 era stato fermamente nell’Europa dell’Est, è passato per questo motivo a coinvolgere quasi solo l’Ovest: l’ultimo ESC organizzato al di là del Danubio risale ormai a Kiev 2017, e da allora si sono ritirate Bulgaria, Romania, Ungheria, Macedonia del Nord e Montenegro mentre sono state accompagnate alla porta Russia e Bielorussia.

Se quest’anno avesse vinto la Croazia, le opportunità di un vero e proprio reset alla direzione impostata nel post-pandemico sarebbero state molto maggiori, e c’è da immaginarsi che la prima conseguenza sarebbe stata il ritorno in gara di tutta l’ex Jugoslavia. Andare in Svizzera significa innanzitutto un altro ESC costosissimo (in un contesto già insostenibile per tante nazioni piccole e medie) e in più porta tutto il carrozzone “sotto casa” dell’EBU, dando loro la possibilità di spazzare la polvere sotto il tappeto e perseguire questa mission sempre più elitaria ed esclusiva senza imparare dai propri errori.

(Non mi esprimo sulla città ospitante perché ho già fatto la Netta della situazione esponendomi a favore di Zurigo e sto solo aspettando di vedere quanto gliel’ho tirata.)

Cosa vorrei vedere l’anno prossimo? Innanzitutto, 40+ nazioni in gara. E già questo è un desiderio impossibile, perché all’orizzonte si vedono tanti potenziali ritiri (Australia, Cechia, San Marino), tanti scontentati dal 2024 che potrebbero seguirli per dare un segnale a EBU (Paesi Bassi ovviamente, Slovenia, Islanda…), la situazione Israele ovviamente in divenire e nessuna nazione apparentemente pronta a subentrare (il Kosovo non lo conto perché RTK non è affiliata EBU e ci vorranno anni perché ci si arrivi, tolto che non mi pare il momento propizio per portare in gara un territorio al centro di una contesa territoriale fra altre due nazioni partecipanti). La mia sensazione, e spero di sbagliarmi, è che sarà molto difficile avere in gara più di 30/32 nazioni in terra svizzera – e questo perché non ci si può aspettare che i danni del 2024 siano ripulibili con un colpo di spugna, una nuova identity, un logo e tanti saluti a Zurigo. La perdita di credibilità di EBU e del brand Eurovision, malgrado la finale si sia risolta in modo tutto sommato “tranquillo”, è reale e avrà delle conseguenze che in questo momento non è semplice quantificare.

Eppure, mai come in questo momento l’Eurovision avrebbe bisogno di tornare ad essere uno strumento di ispirazione per l’amicizia e la comunità tra le nazioni europee – un po’ come lo fu nella seconda metà dei Duemila, periodo qualitativamente trascurabile ma di massimo fulgore a livello di interesse e partecipazione in tutto il continente, quando l’ampliamento del contest alla sua dimensione “moderna” con semifinali e finale fu importantissimo nel cementare l’adesione agli ideali europei delle nazioni dell’est appena entrate nell’Unione.

Riportare le nazioni in gara sopra la soglia dei 40 (cercando nel breve periodo di tornare a coinvolgere i Balcani, e nel lungo di riportare in gara due “pesi medi” come Turchia e Ungheria) renderebbe il contest sicuramente più equo fra i due blocchi contrapposti e riporterebbe un po’ di pepe nelle semifinali, che negli ultimi anni hanno visto l’asticella qualificazione scendere praticamente sotto terra. Eliminare solo cinque o sei canzoni rende le semifinali noiose e prevedibili, perché ci si gioca sempre di meno – visto che qualche “peso morto” c’è sempre e per tante nazioni il passaggio del turno è una mezza formalità – e soprattutto l’assenza delle giurie invoglia le nazioni meno competitive a giocarsi tutto nella corsia del televoto, perché l’obiettivo di quasi tutti i broadcaster è semplicemente arrivare alla serata finale e in prospettiva vale più la quasi certezza di una qualificazione con una proposta scaccia-giurie (Finlandia, Estonia, per certi versi anche Austria) che il rischio di rimanere fuori con qualcosa che i giurati avrebbero potuto prendersi a cuore (da una parte Portogallo e Lettonia, dall’altra Danimarca e Belgio).

Per questo la prossima cosa che vorrei vedere è il ritorno delle giurie in semifinale: certificato che l’esperimento non ha funzionato e sono bastate due edizioni (e l’avvento di Käärijä) a riportare l’ESC a una sorta di seconda era del gimmick dopo quella vista a fine anni ’00, credo sia giunto il momento di fare un passo indietro e ristabilire l’equilibrio che aveva funzionato per dodici edizioni. Magari, se proprio si vuole dare una mano alle fan favorite, si potrebbe qualificare le prime nove della classifica combinata di ogni semifinale e assegnare una wildcard alla più alta nella classifica del televoto tra le escluse (per intenderci, il contrario di quello che avvenne nel 2008 e 2009). Ovviamente andrebbero annunciate tutte assieme come di consueto, lasciando al pubblico il piacere di speculare su quale nazione sia effettivamente stata salvata dal televoto fino all’eventuale svelamento post-finale.

Se si finirà per avere regolarmente in gara meno di 36 nazioni (il minimo sindacale per garantire due semifinali con almeno 15 canzoni in gioco) il rischio è di tornare alla semifinale unica con promozioni e relegazioni, meccanismo già usato nel 2004-2007 e che nell’Eurovision moderno – dove le nazioni che fanno bene sono più o meno sempre quelle – darebbe un ulteriore vantaggio e qualificherebbe direttamente alla finale chi già abitualmente centra la top10 un anno sì e l’altro pure. L’alternativa è ridurre il numero di qualificate a semifinale e quindi di finaliste, scelta ovviamente invisa a EBU perché ridurrebbe ulteriormente la platea di telespettatori interessati a seguire l’atto conclusivo.

Uno dei temi spinosi che inevitabilmente l’Eurovision continuerà ad affrontare è quello della presenza in gara di paesi coinvolti in conflitti, e di come la loro partecipazione venga sempre più utilizzata scientemente per “quantificare” e manifestare il supporto che la propria causa ricopre nel resto del continente. Lo scrissi all’alba della vittoria ucraina a Torino, attirandomi per il tempismo una bella shitstorm gratuita, ma lo penso tuttora e alla luce di quanto successo negli ultimi due anni semmai lo rivendico con ancora più forza. Ci mancherebbe, ogni nazione fa il suo gioco e ognuno gioca con gli strumenti che ha a disposizione, ma è fondamentale che l’ESC torni ad essere un concorso di canzoni e che non diventi il palcoscenico per premiare una grievance diversa ad ogni anno che viene. É vero che al mondo ci sono cose più importanti di un concorso di canzoni (nessuno lo mette in dubbio) ma proprio per rispetto di chi partecipa e mette in gioco energie e risorse non trovo giusto che due degli ultimi tre contest siano stati dominati da narrative che con la musica e la televisione hanno poco a che spartire. Ed è vero che la musica è anche politica e che non si può pensare che un concorso che mette contro 37 nazioni prescinda dalle dinamiche che regolano i loro rapporti nel mondo reale, ma allo stesso tempo non porre alcun limite in tal senso ha minato la credibilità e il senso del concorso in un modo che potrebbe rivelarsi irreparabile.

Come si risolve tutto questo? Non lo so. La proposta, forse drastica, del mio amico Ruben è di impedire la partecipazione di nazioni coinvolte in “conflitti attivi” – nonché di artisti cittadini di quelle nazioni che intendono partecipare sotto altra bandiera – e di coinvolgerle piuttosto fuori concorso. É una soluzione che credo non sia applicabile nel mondo reale sia per ragioni etiche (l’Ucraina è stata invasa da un’altra nazione, con che cuore li si costringe a non prendere parte alla gara finché sono in guerra? Si usa la scusa che “hanno altro a cui pensare”, come letto a lungo nel post-Torino? Pretty patronizing of us!) che per questioni pratiche (chi definisce il termine “conflitto attivo”? Il conflitto tra Armenia e Azerbaijan è “attivo” dal 1988 ma attualmente in stasi, possono partecipare o li escludiamo entrambi? E in ogni caso nel 2021, durante una sorta di cessate il fuoco durato circa due anni, l’Armenia ci vinse un JESC), ma è anche l’unico tentativo che ho letto di affrontare quello che per quasi tutti è un problema.

Resta il fatto che in questo momento, sicuramente, trovare volontariamente degli spunti per escludere ulteriori nazioni è ciò che EBU desidera meno – e proprio per questo la domanda da un milione di euro sull’edizione 2025 è se davvero dovremo ricominciare da dove abbiamo concluso questa, e cioè dell’ostilità generalizzata del fandom (e in aggiunta di broadcaster, artisti potenziali e artisti in gara) a un’altra ipotetica partecipazione di Israele. Ma soprattutto: se il conflitto dovesse congelarsi da qui a maggio 2025, se si arrivasse a un cessate il fuoco e a una sostanziale stabilizzazione della situazione nella striscia di Gaza, se il governo attuale fosse costretto alle dimissioni e sostituito, l’opinione pubblica sarebbe pronta ad accogliere Israele in Svizzera per la prossima edizione? Discorso applicabile anche a una Russia futura liberata da Putin, o a una Bielorussia orfana del dittatore Lukashenko?

La risposta definitiva non ce l’ho, ma temo di saperla e credo non ispiri grande fiducia e speranza nel futuro dell’Eurovision. Toccherà al prossimo Executive Supervisor (sia esso Österdahl o chi per lui) traghettare la manifestazione verso lidi più miti, con la speranza di ritrovarci qui a commentare un’edizione 2025 ricca di bella musica, storie, stimoli positivi e soprattutto tutta la LEGGEREZZA che quest’anno è purtroppo mancata.

1 commento su “ESC 2024 – When the music dies”

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