Sono passate ormai più di tre settimane dall’annuncio che ha shockato tutto il fandom eurovisivo: il Regno Unito, rappresentato da BBC (British Broadcasting Corporation), ha deciso di calare l’asso e schierare Olly Alexander come proprio portabandiera a Malmö.
Cantante ex frontman degli Years & Years (la loro King fu una hit minore dell’estate italiana 2015, raggiungendo la #21 nella classifica FIMI), attore di cinema e di teatro, attivista LGBTQ+, personaggio super inserito nella cultura pop britannica: sulla carta Olly sembra avere tutto per prendere d’assalto il palco della Malmö Arena, inserendosi nel solco del “rinascimento eurovisivo” tracciato dai britannici con Sam Ryder e (in parte) Mae Muller.
La rilevanza del personaggio da sola non basta a giustificare l’euforia collettiva che ha seguito l’annuncio della partecipazione di Olly. Sappiamo tutti che l’Eurovision attira principalmente artisti emergenti se non del tutto sconosciuti – specie in rappresentanza di nazioni poco interessate al contest, e/o portatrici di una scena musicale piccola o piccolissima. Il Regno Unito non rientra in nessuna di queste due categorie: l’industria musicale britannica è la più grande e fruttuosa d’Europa, e malgrado i numerosissimi flop di questo millennio (l’ultima vittoria risale addirittura al 1997 con Katrina & The Waves) il pubblico di Sua Maestà è sempre rimasto tutto sommato fedele all’evento, pur sviluppando via via un atteggiamento tra lo sconsolato e il vittimista verso il presunto accanimento “politico” del resto del continente verso l’Union Jack.
Non è la prima volta, peraltro, che il Regno Unito si affida ad artisti affermati: tra il finire degli anni Duemila e l’inizio degli anni Dieci si sono susseguite due partnership fra artisti emergenti e autori LEGGENDARI della scena british (Andrew Lloyd Webber per Jade Ewen, 5° nel 2009 con It’s My Time; Pete Waterman per Josh Dubovie, 25° e ultimo nel 2010 con That Sounds Good To Me) e tre stelle/vecchie glorie della musica desiderose di invertire un inevitabile declino di carriera (i Blue 11° nel 2011, Engelbert Humperdinck 25° nel 2012, Bonnie Tyler 19° nel 2013. Da lì in poi solo artisti esordienti o quasi, selezionati tramite finali nazionali opposite o scelte interne – perlomeno fino all’entrata in scena di Sam Ryder, che con il secondo posto conquistato nel 2022 ha riportato nel Regno l’entusiasmo per l’Eurovision e in qualche modo cancellato buona parte dello scetticismo e delle teorie del complotto dei britannici sulla mancanza di supporto ricevuta per anni dal pubblico del continente.
Eppure, l’effetto-Olly Alexander ha avuto una conseguenza quasi immediata: a soli sei giorni dall’annuncio, forse per la prima volta in questo millennio, il Regno Unito ha raggiunto la prima posizione nella classifica degli scommettitori. Per quanto la discussione sia alquanto prematura – tanto più ora, a inizio gennaio, senza conoscere nessun brano fra quelli che rappresenteranno le prime 8 nazioni e in molti casi nemmeno gli artisti o i candidati – questo è segno di una forte confidenza degli insider nella proposta britannica, dovuta anche all’annuncio della collaborazione di Olly con il noto autore e produttore Danny L Harle per scrivere il brano con cui gareggerà in terra svedese. C’è chi si è spinto a dire che la sua partecipazione, unita a quella del francese Slimane e dell’inevitabile “big” che uscirà da un’edizione di Sanremo più che mai carica, sembra rappresentare il passaggio dell’ESC da una vetrina per debuttanti/emergenti a una gara fra il meglio che i principali mercati musicali possano offrire.
Eppure, non è esatto dire che Olly non veda nell’Eurovision un’occasione di rilancio per la sua carriera, al di là di quanto sia effettivamente interessato a questa opportunità. Gli Years & Years hanno pubblicato tre album in tutto, ma solo il primo ha avuto un riscontro discreto al di fuori dei confini di Sua Maestà e l’ultima certificazione risale ormai al 2018: dopo la pandemia gli altri due membri sono fuoriusciti dal progetto, lasciando Olly come unico membro per la pubblicazione del terzo album Night Call (2022). É fattuale che negli ultimi anni il cantante di Harrogate si sia più dedicato all’attività di attore, ottenendo una certa popolarità con il ruolo di Ritchie Tozer nella serie TV di Channel 4 It’s A Sin.
La common wisdom è che la rilevanza di Olly all’interno della comunità gay, non solo nei paesi di lingua anglofona, basterà a garantirgli un grande supporto al televoto e che l’appeal radiofonico del pezzo che porterà in gara non mancherà di riscuotere successo tra i giurati di tutta Europa. Allo stesso tempo parlare di vittoria apparecchiata, al momento, sembra quantomeno azzardato: non abbiamo prove della qualità effettiva del brano (che è stato descritto come un ballabile con cui Olly vuole rappresentare UK in the gayest way possible, qualsiasi cosa voglia dire) né delle doti vocali live dell’interprete, come non sappiamo quale sarà l’effettiva concorrenza e le narrative che prevarranno da qui a maggio: basti pensare che fra le prime posizioni della classifica delle odds, in questo momento, si trovano sia l’Ucraina che Israele per motivi che con la musica in sè hanno poco a che vedere.
A mio avviso è palese che BBC sia tornata a voler investire seriamente nel progetto-Eurovision e che Olly parta con un bacino di popolarità e un interesse pregresso che non si è visto spesso nel contest in questi ultimi anni. Allo stesso tempo, si tratta di un’operazione che già ora suscita parecchi punti di domanda e che, un po’ come visto l’anno scorso con Mae Muller, rischia in tanti aspetti di risultare come un passo più lungo della gamba per la delegazione britannica.
In ogni caso, è indubbio che avere in gara una figura come Olly sia un’ottima pubblicità per il contest e un grande volano promozionale per il brand Eurovision nel Regno Unito, dopo anni di partecipazioni sottotraccia e sberleffi ricevuti un po’ da tutta Europa (a tratti anche immeritatamente, ma la sostanza resta quella). Al di là del risultato finale, ci si sta lentamente avvicinando a quello che dovrebbe essere il golden standard che la nazione egemone nel contesto musicale europeo può presentare sulla scena dell’ESC. E questa, per la delegazione e tutti gli eurofan britannici, può già considerarsi a tutti gli effetti una vittoria.